Anche se non volete vederlo, i vostri artisti e musei preferiti sono razzisti

By Valentine aka Fluida Wolf Dicembre 27, 2020

Questo articolo é apparso sul sito www.intersezionale.com il 27.12.2020 è tradotto da Valentine aka Fluida Wolf. Abbiamo solo da aggiungere che L’ARTE É UNA TRUFFA.

Questa intervista a Linda Porn è apparsa il 13 novembre 2020 a cura di Abel Cobos sul media di informazione e intrattenimento Codigo Nuevo.

Abbiamo deciso di tradurla con il consenso dell’artista intervistata perché riteniamo fondamentale riflettere sulla riproduzione delle forme di colonialismo e neo colonialismo, attraverso voci che arrivano dal Sud globale.

Il dibattito sui monumenti che glorificano il colonialismo presenti nelle nostre città, ha ripreso forza anche in Italia, a partire dai giorni seguenti al 25 maggio scorso, data dell’uccisione di George Floyd, che ha riportato il movimento Black Lives Matter a riprendersi le piazze di tutto il mondo, denunciando il razzismo endemico della nostra società e smascherando i molteplici livelli che vanno ad alimentare le pratiche neo-colonialiste.

Ancora una volta, in Italia, si è persa un’importante occasione per fare i conti anche con il nostro passato coloniale.

L’attacco ai monumenti e alle statue è stato derubricato a “vandalismo”, e i tentativi di analisi convergevano per lo più sul “dobbiamo contestualizzare”.

Linda Porn ci porta a guardare alle nostre città e musei con l’occhio di chi ancora oggi vive il colonialismo sulla sua pelle e ci porta a riflessioni sugli spazi che come persone bianche europee continuiamo a occupare e egemonizzare.

Traduzione a cura di Valentine aka Fluida Wolf, femminista e traduttrice militante.

“La statua di Colombo a Barcellona è come uno schiaffo in faccia alle persone migranti” spiega Linda Porn, artista e migrante.

Pensate ai vostri musei preferiti. Sicuramente saranno pieni di arte da tutto il mondo. Ad esempio, il Pergamonmuseum di Berlino, con la Porta di Ishtar, di Babilonia. O il Neues Museum, con il busto di Nefertiti. O il Penacho (copricapo N.d.T.) di Moctezuma in Austria. O i quadri di Tahiti di Gauguin. O le Odalische del Louvre. Ma tutte queste opere hanno qualcosa in comune: razzismo, colonialismo e saccheggio. E’ quanto denunciano centinaia di attiviste/i razzializzate/i, sostenendo che l’arte che consumiamo (tanto nei musei come negli spazi pubblici) è razzista.

Dopo un’estate di proteste di Black Lives Matter, culminate con l’abbattimento delle statue e la riapertura del dibattito sul fatto che l’arte bianca glorifichi il colonialismo e perpetui le basi razziste della nostra società, la questione è tornata al centro dell’attualità. Per questo abbiamo parlato con Linda Porn, “puttana, madre sola e artista migrante”, come lei stessa si definisce, che ha portato la sua riflessione sul suprematismo culturale europeo nella conversazione Rompiendo las Narrativas Racistas insieme a Daniela Ortiz e per lo spazio di riflessione Loom Senses, a cui si può accedere dal sito del Loom Collective.

C.N: Ora che si parla delle violenze maschili nel mondo dell’arte, possiamo avanzare una lettura simile in chiave razziale?

LP: Sì, ed è facilmente comprensibile con un esempio: l’arte europea è considerata arte, ma l’arte dei nativi americani viene chiamata folklore o artigianato. Non è considerata cultura alta perché, attraverso il colonialismo, si è affermata la supremazia bianca, anche nella cultura. Così l’Europa si è “aggiudicata” il copyright dell’arte, si è imposta come l’universale, lo standard e, naturalmente, la migliore. Ed è per questo che le persone che guadagnano di più con l’arte sono gli uomini bianchi.

CN: Come esempi di razzismo e maschilismo nel mondo dell’arte mi viene in mente, tra gli altri, il post-impressionista francese Paul Gauguin, con i suoi dipinti su Tahiti.

L.P.: Gauguin è l’archetipo del “maschio bianco ispirato”, di questo genio che può abbandonare la sua famiglia (e lasciare alla moglie la responsabilità dei figli) per andarsene in giro per il mondo a commettere ogni tipo di violenze [razziali e misogine] in nome dell’arte. Un uomo che è così ispirato e che è un tale “genio”, i cui piaceri mondani sono così piccoli, che gli deve essere permesso tutto. Gauguin è andato a Tahiti [ colonia francese] e sì, ha catturato la bellezza dei tropici, ma è ancora il punto di vista dello scopritore maschio bianco. Come rappresenta le donne? Ebbene, tutte nude e selvagge, le stesse rappresentazioni stereotipate che anche i coloni fecero delle donne tahitiane: dalla pelle scura, eroticizzate, voluttuose ed esotiche.

E non è il solo: Picasso, oltre alle accuse di misoginia, ci sono quelle di plagio dell’arte africana [per esempio nei volti geometrici, ispirati alle maschere africane]. È la stessa cosa di Gauguin, quegli uomini bianchi, cis e potenti che possono fare qualsiasi cosa senza conseguenze perché sono dei geni. È un profilo molto comune in Occidente.

CN: Alcunx attivistx hanno parlato dell’arte storica europea come di “propaganda bianca”. Perché?

L.P. Storicamente, l’arte è parte della politica di una società. Da sempre è servita come direttrice ideologica in grado di indicare dove andrà la società e dove i potenti vogliano che vada. Quindi è chiaro che nell’era del colonialismo erano intenzionati a promuoverla.

Ad esempio, il Rinascimento, la più alta espressione artistica europea, coesiste con la devastazione dei territori sia americani che africani. Le rappresentazioni proposte, quindi, sono un’esaltazione del cattolicesimo, degli uomini, del dio bianco, e una denigrazione delle donne (o la loro conversione in sante, i loro unici due ruoli). L’arte è sempre stata uno strumento di educazione morale e, naturalmente, non è esente da un processo di colonizzazione.

CN: Parliamo di un tema di attualità: le statue dei colonizzatori. Quali sono le posizioni più comuni con cui i vari attivisti si confrontano con quest’arte?

L.P.: Sono gli idoli che hanno costruito la vostra cultura [quella europea]. È “normale” che queste statue siano lì, perché quello che vi è arrivato dalle colonie è distorto. Si racconta la versione per cui siete andati a salvare, ad evangelizzare e a salvare i selvaggi, ma il genocidio non si narra. Così, quando tu in quanto persona razzializzata vedi questi monumenti, la prima cosa a cui pensi è che cadano, e perfino a buttarli giù tu stesso. Per noi, queste statue sono una battaglia contro il colonizzatore e tutto ciò che questo significa. Per me, come persona razzializzata, la statua di Colombo a Barcellona è come uno schiaffo in faccia.

Ora, in una società globalizzata in cui abbiamo accesso a informazioni che non sono polarizzate dal discorso bianco, ci deve essere una revisione di ciò che questi simboli significano, perché violentano una gran parte della società. Più di un terzo degli esseri umani sta mettendo in discussione l’innalzamento di queste statue ma, soprattutto, il fatto che siano ancora lì, rafforzando il discorso che la colonia sia stata qualcosa di positivo, quello della supremazia bianca e del “noi siamo migliori di voi”, “noi sappiamo fare bene le cose, e voi continuate ad essere selvaggi”.

Un discorso che perpetua la violenza e la povertà globale.

CN: Perché, come sostengono molti attivisti, anche se il colonialismo “è scomparso”, siamo ancora in una fase di neocolonialismo, non è così?

L.P.: Esattamente, il colonialismo è ancora in corso. Le leggi sull’immigrazione o i morti nel Mediterraneo, sono un esempio e una conseguenza del saccheggio delle nostre comunità. E anche chi controlla il Paese: per esempio, io sono messicana, e lì la telefonia utilizzata è Movistar (marchio commerciale di Telefónica S.A., una compagnia di telecomunicazioni spagnola N.d.T.) e il pane è il Bimbo. Quello che voglio dire è che i coloni non se ne sono andati davvero, ma i loro discendenti sono ancora lì e detengono il potere delle economie latinoamericane.

CN: Un’altra questione attuale: l’ONU ha detto che i musei devono essere decolonizzati. Cosa significa?

L.P.: Restituire i pezzi che hanno rubato. È molto curioso il fatto che le nostre opere d’arte non siano considerate arte, ma poi le mettano nei loro musei. È quel gioco perverso di delegittimare il nostro lavoro per poterlo rubare. Inoltre, non vogliono restituire le opere rubate perché hanno un valore molto alto per il paese, incidono sul loro PIL. Perché la Porta di Ishtar di Babilonia si trova a Berlino? Perché migliora il catalogo del museo, l’interesse turistico della città e apporta soldi, naturalmente. Ecco perché il Penacho è in Austria, la Bibbia nahuatl a Toledo o la Stele di Ikhernofret a Berlino.

C’è un aneddoto che riflette molto bene questa attitudine europea e colonizzatrice. Juan Carlos I ha visitato il Messico durante la presidenza di Vicente Fox. Lo portarono al Museo Nacional, dove si trova il dipinto Las dos Fridas e il Re chiese quale fosse il suo prezzo. Era tanto assurdo come dire “vado a comprare il Goya” o “il Velazquez”. Non si può prendere un’opera che appartiene a tutti i messicani.

CN: E se non sbaglio, decolonizzare i musei significa, oltre a restituire ciò che è stato rubato, dare spazio a mostre di artisti diversi da questo archetipo dell’uomo bianco cis che ci hai spiegato. Ma come dimostrano le aggressioni che hanno colpito Daniela Ortiz, tua compagna nell’incontro di Loom Senses, anche questo comporta un’esposizione alle violenze.

L.P.: Esattamente. Daniela è stata pesantemente criticata per aver esposto nella Virreina di Barcellona, un centro coloniale. È stata persino accusata di essere contraddittoria quando, appunto, esporre in quel contesto significa decolononizzare quegli spazi. E poi, in quale altro modo l’arte può arrivare? Non è lo stesso condividere il proprio lavoro attraverso le reti che essere legittimata da un museo e dalla comunità artistica bianca. Se non ci danno questi spazi, siamo condannate alla precarietà.

I musei sono centri di potere gerarchici. Io, come proletaria dell’arte e migrante, ne sono esclusa, perché sono stati concepiti per rafforzare il suprematismo bianco. È così facile dimostrarlo, basta guardare chi dirige l’arte, chi gestisce i musei e chi produce ciò che viene esposto. Anche questo è decolonizzare: superare l’eurocentrismo, eliminare lo stigma del folklore dall’arte delle comunità originarie, abbandonare la visione della nostra arte come souvenir e riconoscerne la sua forza sociale e politica.